lunedì 4 giugno 2012

La mia 'filologia' di vita

A scrivere ora è Nicolle, la parte 'artistica' del duo Nicolle-Alessandro. E oggi voglio scrivere di una mia grande passione: la filologia. Una scienza? O un'arte? Beh, diciamo che questa disciplina è a metà tra questi due mondi: anzi, li ingloba e li comprende entrambi, perché, con la sua evoluzione, ha assunto sempre più le forme e la prassi di un procedimento scientifico, ma, riguardando la cultura 'scritta' dell'uomo, ha nel suo fondo un'inestinguibile fonte di artisticità, che mi fa adorare questa forma di conoscenza.
Si tratta di un 'amore', come indicano tutte le parole composte dal greco philos: in questo caso è amore per la 'parola', per il 'discorso', ma anche per il 'pensiero' (dato che il greco logos vuol dire tutto questo). Dunque la filologia non è un semplice  - né tantomento inutile - indugiare sulle parole, ma anche sul 'sema', sul significato e sull'interpretazione che ogni singola parola di un discorso e che la catena stessa creata da queste singole parole nascondono. 
La filologia è allora anche un modo profondo di leggere la realtà tramite la parola scritta: un riappropriarsi del pensiero originario di un certo autore tramite la ricostituzione della sua 'parola' originaria'.
Di fatto, è proprio questo il compito del filologo che ci insegnano all'Università: fornire un'edizione critica di un testo, ovvero cercare di ricostruire la veste testuale più vicina alla volontà dell'autore. Ma la filologia non è solo questo: è, come dicevo prima, anche una 'ermeneutica', una interpretazione dei testi che tenta di ricostruire nella loro veste originale. Perché non è data buona filologia se di pari passo non si 'comprende' un testo, legandolo anche al suo contesto e alla conoscenza delle abitudini (non solo culturali e linguistiche) del proprio autore.
Dunque le moderne edizioni critiche, estremamente difficili - è vero - da leggere per chi non è del mestiere, sono corredate di un'ampia introduzione filologica, in cui si espone la storia della tradizione del testo (manoscritta o a stampa) e si evidenziano le parentele sulla base di una complicata analisi del sistema degli errori (di copisti o di stampa, quindi non dovuti all'autore) e di varianti (spesso autoriali) che sarebbe troppo lungo e noioso stare a spiegare qui. Inoltre, una buona edizione critica si basa su tutti i testimoni di quella data opera, nessuno escluso: questo per conferire un valore davvero scientifico al testo che si sceglierà di pubblicare. Per questo, a piè di pagina del testo si trova un ricco apparato critico, in cui si elencano di volta in volta le 'lezioni' rifiutate a testo e le varianti d'autore trovate per ogni singolo passo: questo perché nella filologia è intrinseca una ONESTA' di fondo. Si vuole cioè che il lettore abbia davanti a sé tutto il materiale per valutare le scelte editoriali del filologo, e anche perché è giusto che il lettore conosca i passaggi redazionali (qualora ve ne siano) dell'opera di suo interesse.
Questo è il frutto del lavoro - spesso lunghissimo e quasi interminabile - di un filologo: l'edizione critica. 
Ma dietro la filologia, una pratica che comincia con gli Alessandrini e che sarà completamente rinnovata dai grandissimi Umanisti (soprattutto il Valla e Poliziano) c'è un amore per la verità che va ben oltre il mero testo scritto: è un amore per la parola in quanto privilegiato mezzo di comunicazione squisitamente umano: tramite la parola, l'uomo comunica i suoi pensieri. Quindi, se la parola è esatta, anche il pensiero che essa vuol comunicare è - almeno formalmente - esatto e ineccepibile. Non c'è possibilità di errore. Proprio per non sbagliarsi, c'è bisogno di ricostruire la 'parola' originaria.
Oggi più che mai c'è bisogno di essere tutti un po' 'filologi', di riappropriarsi cioè della 'verità' del linguaggio umano: infatti, il linguaggio medio si sta fin troppo standardizzando, si stanno perdendo le sfumature lessicali e le peculiarità dialettali che tanto più sapore hanno degli inglesismi che entrano a vagonate piene nel nostro italiano impoverito. I discorsi degli Italiani di oggi (a ogni livello: scolastico, politico, economico) traboccano di una terminologia imprecisa e sbagliata.
Come si fa a seguire tali discorsi fatti di parole errate? Come comprenderne il pensiero sotteso? Perché non riusciamo più a parlare né a pensare bene? Perché filologia e pensiero vanno di pari passo: se decade l'una decade anche l'altra, e viceversa, naturalmente. Il disinteresse dei giovani di Lettere e Filosofia verso la filologia è una prova di questa decadenza generale, come lo è la nascita della 'massa', con le sue innumerevoli omologazioni (dialetti che vanno scomparendo, rifiutati dalle stesse persone che ne dovrebbero essere le orgogliose depositarei, informazione pilotata dall'alto e da un unico canale di potere, televisione - spazzatura imperante, analfabetismo galoppante dovuto a un sistema scolastico più che deficitario e che definire qualitativamente mediocre è un eufemismo).
E quando andavo ai corsi universitari di filologia romanza o di filologia umanistica, e sentivo tutti quei ragazzi che si chiedevano quale fosse l'utilità di questa disciplina, mi rendevo conto di quanto fosse - e continua a essere, mi dicono - mal spiegata: spesso i prof. universitari, pur essendo bravissimi filologi, quando devono insegnare filologia la riducono a mere formulette manualistiche che non entrano nei 'cuori' degli studenti. Perché invece non aprono le loro lezioni di filologia con il dire che questa disciplina è una 'forma mentis', è un bisogno di verità, è un'aspirazione alla libertà? Con tutto il bisogno odierno di questi valori, vedrebbero quanti ragazzi in più si innamorerebbero di Philologia!!

2 commenti:

  1. Cara Nicolle, mi piace molto questo post, complimenti! Anche per me dovremmo restituire alle parole la loro giusta importanza, dovrebbero essere il simbolo della nostra "umanità" perché grazie alle parole noi comunichiamo e pensiamo.
    Mi hai stimolato la seguente riflessione: sarebbe bello trasformare la "filologia" in una prassi di vita. L'attenzione che dovremmo avere sulle parole è la stessa che dovremmo avere sui comportamenti e sulle azioni. Anche li' non dovremmo essere superficiali ma cercare di capire per quali profonde ragioni ci siamo comportati in un modo piuttosto che in un altro. Hai parlato di "pensare bene". E io mi affianco a te citando Socrate che sosteneva: "l'importante non è vivere, ma vivere bene". E direi che le due cose sono sempre strettamente collegate.
    A presto!

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  2. E' vero, cara Madda: la mia fissa è sempre stata quella di 'applicare' ogni tipo di conoscenza teorica buona alla vita pratica: bisogna trarre tutto quello che c'è di buono da quello che ci insegnano e che impariamo da soli per vivere meglio noi e per far vivere meglio gli altri.
    Dice bene il buon Socrate..!
    Baci
    Niki

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