domenica 30 dicembre 2012

Un po' di politica (1): la Carta d'Intenti della Coalizione del centrosinistra

Era un bel po' che avevo intenzione di scrivere qualcosina di politica, però tutti questi ridicoli scandali che hanno colpito il Belpaese mi avevano gettato un po' nello sconforto (e a chi non è successo?). Ahi, poveri Italiani, gli eredi diretti della illustrissima cultura giuridica romana, che oggi sono costretti a sorbirsi le cadute e ricadute di una classe politica marcia e decrepita!
E così, messo necessariamente da parte lo sconforto (bisogna comunque guardare in faccia la triste realtà e non nascondersi dietro un dito), e vista ormai l'imminenza delle elezioni, ritengo che sia almeno doveroso interessarsi dei 'programmi' di coloro che vogliono guidarci. Per cui ora proporrò una serie di post dedicati all'analisi dei programmi, o meglio, degli ideali che i partiti propugnano (visto che la maggior parte di loro ancora un programma non ce l'ha).
Per questo post mi sono andata a spulciare il sito dei papabili alle prossime elezioni del 2013: quello del PD e....

venerdì 28 dicembre 2012

Dedicato alla scrittura...

Questo post è dedicato ad una piccola grande vittoria, quasi una rivincita, che ho insperatamente avuto nel difficilissimo mondo della letteratura. Non da 'studiosa', in qualche modo passiva di fronte alle opere degli altri, ma da piccola e oscura 'scrittrice', attiva nel mondo della carta e della penna. Ho sempre scritto, sia poesie che racconti, così, perché mi rilassa e mi fa divagare. Mi piace correre dietro la penna. Non sono mai io quella che decide cosa o cosa non scrivere: è la penna che fa ogni cosa. La maggior parte delle cose che scribacchio non parlano assolutamente di me, né di qualcuno che conosco....
Sono piuttosto catene di parole che sgorgano l'una dietro all'altra e che pescano da un sostrato 'immaginativo'  che vive sul limite di quella mia parte semicosciente che ho imparato a conoscere proprio grazie alla scrittura. E mi rendo sempre più conto che questa parte è malinconica: se dovessi renderla in immagini, la descriverei come una specie di palude nebbiosa e silenziosa, da cui si intravedono movimenti incerti di esseri sconosciuti e forse tenebrosi, che fanno spiccare la fantasia di chi osserva. Ecco, io quando scrivo sono immersa in questa palude, e osservo ogni cosa con i sensi dilatati...è difficile rendere l'idea, forse può capire solo chi scribacchia come me ;-)))
Insomma, taglio corto e ritorno alla mia piccolissima rivincita che ho avuto qualche mese fa: inaspettatamente ho vinto un Premio Nazionale, intitolato "L'insostenibile leggerezza della precarietà", nella sezione drabble, che sono piccoli racconti di 100 parole... il mio lo scrissi in non più di 5 minuti e lo spedii senza dare alcun peso a quella piccola storiellina. E invece ha incredibilmente colpito nel segno...ancora devo realizzare! Gli organizzatori del Premio hanno costruito per il mio "L'acrobata" un video bonus che hanno postato su Youtube e che io vi ho messo qui per comodità, se volete dargli un occhio... Inoltre mi hanno inserito nell'Antologia cartacea del premio, dove il figlio del pittore Dalì mi ha dedicato una lusinghiera Nota critica, che voglio condividere con voi (la prendo proprio dal libro):


Nota critica

a cura di Josè Van Roy Dalì

pittore surrealista, scrittore



Un viaggio nella vita colmo di apprensioni, una sorta di “passaggio ad ovest” che ci accomuna tutti, sospesi tra cielo e terra nella visionaria convinzione che gli acrobati-eroi siano “gli altri”, quelli fuori dall’ordinario, mentre è proprio nell’ordinario, nel consueto che “l’insostenibile leggerezza” della fragilità umana ci guarda negli occhi senza possibilità di distogliere lo sguardo. L’esperienza guadagnata sul campo di chi ci mostra la strada - il babbo che dice “prova, prova” - si fa viatico e catarsi per l’accettazione di un ancestrale fardello a cui non ci si può sottrarre. Allungando “il piede nel mistero” di quella corda, che oscilla “nel vuoto nero” e rende incerto ogni passo, ci si avventura alla cieca, di notte, su un sentiero dai contorni sfumati “per non rendersi conto delle distanze”, con lo sguardo fiducioso rivolto alle stelle. Poche efficaci pennellate per un quadro surreale che Nicolle Lopomo ha dipindo in sole 100 parole di una fusione algebrica in cui l’arte diviene perfezione.

Josè Van Roy Dalì



Spero che il mio mini raccontino piaccia anche a voi! E' sempre bello constatare che qualche cosa al mondo non è truccato!! Bisogna credere profondamente in ciò che vogliamo per noi: a piccoli passi, sono raggiungibili anche le stelle...buona lettura a tutti!






Infine qui sotto vi posto il link da cui potete accedere all'anteprima del libro: il mio racconto e la nota di Dalì sono a pp. 8-9 ;-))

 http://reader.ilmiolibro.kataweb.it/v/880002/L_insostenibile_leggerezza_della_precarietandagrave_#!

giovedì 27 dicembre 2012

Letteratura e potere: un connubio immortale

Studiando l'umanista poligrafo Maffeo Vegio, vissuto nella prima metà del '400, mi è stata confermata l'impressione di quanto la letteratura e, più in generale, il sistema culturale di un determinato periodo (anzi, direi di ogni periodo) siano legati al sistema politico e alle cerchie ristrette del potere. 
Il Vegio era una creatura del ducato visconteo: la figura di Filippo Maria Visconti attirava a sé molte personalità influenti dell'epoca, e anche la florida università di Pavia era uno specchietto molto appetibile per le varie 'allodole' in cerca di fortuna e di benessere che vivevano in quel periodo. Non solo il Vegio, semisconosciuto ai più, ma anche Lorenzo Valla, per fare il nome di uno degli umanisti più noti, scelsero la terra lombarda come luogo adatto ai loro studia.
Il Visconti era un duca, un principe, colui che aveva il potere e la facoltà di 'assoldare' i migliori poeti del momento per essere celebrato. E i poeti in questione lo sapevano. E che facevano?

mercoledì 26 dicembre 2012

Bulgakov e "Il Maestro e Margherita"

Qualche giorno fa ho terminato di leggere questo romanzo russo che Michail Bulgakov cominciò a scrivere alla fine degli anni '20 del Novecento, con una serie di scritture e riscritture quasi maniacale che terminerà solo pochi giorni prima della morte dell'autore, avvenuta nel 1940. Il romanzo fu concepito e steso durante il triste periodo stalinista, e non fu edito se non dopo quasi un trentennio dalla morte di Bulgakov, naturalmente con parti censurate. 
Ed è chiaro: il romanzo rappresenta una critica corrosiva al sistema del potere che blocca ogni rinnovamento culturale, all'immobilismo della società russa di quegli anni. E Bulgakov espone le sue idee mettendo in scena un Maestro di cui non si conoscerà mai il nome, un Maestro che entrerà nelle pagine del romanzo solo a storia inoltrata, assieme alla sua bella e irrequieta amante, Margherita....

giovedì 20 dicembre 2012

21 dicembre 2012: fine del mondo?

Carissimi lettori...dopo una lunga assenza rieccoci qua! Bentornati a tutti! 
E' comunque un caso che siamo riapparsi proprio il giorno prima della presunta fine del mondo...........su questo topos che periodicamente si ripete nella storia dell'uomo vorremmo proprio spendere due paroline, estremamente personali, ma - crediamo - condivise da molti di voi.
Domani è il 21 dicembre 2012: dicono che secondo il calendario Maya (che è stato all'occorrenza travisato e forzato) domani il mondo e tutti i piccoli esserini che ci camminano sopra cesseranno di esistere. Questa notizia circola fin dall'inizio del 2012, se non già dagli ultimi mesi del 2011. E ora ci siamo. Una buona parte della gente, anche se ci ride sopra per non apparire credulone e tontolone agli altri, in realtà ha paura di addormentarsi stanotte..mentre l'altra parte della gente non ci crede proprio, e ci ride di gusto su tutto ciò.....

Rientro ... fotografico

Carissimi lettori...purtroppo per impegni personali abbiamo dovuto eclissarci per alcuni mesi, e ancora per un po' di tempo la nostra attività di blogger subirà ulteriori rallentamenti...nell'attesa di riprendere il giusto ritmo, invio un po' di foto mooolto amatoriali...spero sia una buona visione ;-)

Blue caves a Zacinto
Chiesa di Agios Nikolaos, sempre a Zacinto

L'Aquila 2012

Il ponte di legno di Zacinto

I miei due cagnoloni che non ci sono più...ci mancate!


giovedì 19 luglio 2012

Finalmente ci siamo: il sequestro di Green Hill

Questo blog, si era aperto all'insegna della lotta contro il maltrattamento animale, con un post specifico sul caso Green Hill, il grande allevamento di beagle di Montichiari destinati ai laboratori di tutta Europa che ne fanno carne da macello. 
Dopo tutte le iniziative degli attivisti, dopo tutte le manifestazioni e le firme a cui anche noi abbiamo partecipato con convinzione, ecco che finalmente, ieri, è giunta una bellissima notizia: un blitz del Corpo Forestale dello Stato ha posto sotto sequestro l'intera struttura. Tutto questo è bellissimo ed emozionante, ma.....

domenica 15 luglio 2012

Il mare che rigenera

Ma quant'è bello il mare? Con i suoi colori che cambiano con il cielo, con i suoi rumori che sono legati al vento, con la sua insuperabile imponenza, e con il senso di infinito che suscita quando gli occhi si posano sulla sua superficie e si perdono all'orizzonte...è uno spettacolo della natura che credo sia ineguagliabile.
Ma il mare è anche un qualcosa di più del semplice mare: è anche tutto quello che è connesso 'umanamente' a questo aspetto della natura. L'uomo è legato al mare da sempre. Prima, questo era uno strumento di lavoro, una 'strada' molto trafficata per i commerci umani, ma anche per le innumerevoli battaglie navali che vi hanno avuto luogo. Il mare era dunque per l'uomo antico un misto di bene e di male: luogo infido per le insidie che tendeva al marinaio, ma anche luogo del favoloso, del mistero e del 'divino' (basti pensare alla mitica vicenda di Odisseo, con Poseidone sempre alle calcagna).
Per l'uomo moderno, il mare è invece piuttosto un simbolo positivo. Un simbolo della sua interiorità, un luogo dell'immaginario, ma anche della realtà quotidiana. L'uomo moderno va in vacanza al mare, lo conosce soprattutto come luogo di relax (per i più grandi) e di divertimento (soprattutto per i giovani). Solo una minima parte dell'umanità si serve del mare per 'vivere', pescando, commerciando o trasportando su traghetti turistici le torme di vacanzieri che raggiungono isole e isolotti. E' finita l'epoca dipinta da Hemingway ne Il Vecchio e il Mare, un libro stupendo che avrò letto forse 5 o 6 volte, se non di più: il vecchio pescatore Santiago che lotta con un marlin è l'emblema dell'uomo che incontra il mare, che si scontra con esso e che tenta di vincerlo. Santiago riesce a sopravvivere al grosso marlin nella lotta per la sopravvivenza: la sua è una vittoria, ma una vittoria a metà, e per certi versi assurda e inutile. Quando infatti Santiago ritorna da questa pesca estenuante, non potrà che far vedere alla gente sgomenta la carcassa del marlin dilaniata dagli squali: il fine per cui si era tenuto questo scontro - procacciarsi del cibo - è stato completamente vanificato. Il marlin è così un simbolo del mare domato faticosamente dall'uomo, spesso per mezzo di logiche assurde e inconcepibili.
Oggi l'uomo, quando pensa al mare, non lo pensa come entità nemica, ma come luogo di pace, da raggiungere non appena si ha un attimo libero, per rinfrescarsi e rigenerarsi non solo nelle sue acque, ma anche in tutta quell'atmosfera di 'vacanza' che lo circonda, e in quel senso di 'mistero' ineffabile che ci suggerisce. Cosa c'è di più bello di vedere una spiaggia semideserta che si perde nell'orizzonte? E della riva smossa dalle onde, lievi o agitate che siano? E del sole che sprofonda lento e caldo nelle lontananze del cielo? Io penso che non ci sia niente di più bello..che tutti dovremmo sentirci piccini e insieme grandissimi quando guardiamo il mare!
Solo due giorni fa ho fatto la mia prima visita 'seria' dell'anno al mare. Ero in compagnia di due mie care amiche, V. e M., che saluto perché so che stanno leggendo :-))) E' stata davvero una giornata bellissima, in cui ho potuto unire al piacere di rivedere il mare bellissimo di San Vincenzo, tutto agitato con i suoi cavalloni da saltare, la spensieratezza di una giornata trascorsa tra amiche:  dopo tutto lo stress di quest'ultimo periodo ne avevo davvero bisogno!! Questa bella gita è stata davvero fantastica: viaggio in treno, colazione in un bel barrettino, paninozzo azzeccato e sole a tutta randa, tra piedi ustionati, capelli alla Anacleto della Spada nella roccia e ripetuti bagni tra le onde...si pareva proprio delle bambine alla prima vacanza!
Eh, il mare così, vissuto con la giusta compagnia, rappresenta il massimo del benessere e del piacere per me. 
Uno spazio che riesce sempre a regalarmi pace e positività. Insomma, il mare è TROPPO BELLISSIMO!!
Vi lascio con una foto fresca fresca della bella spiaggia di San Vincenzo...




venerdì 6 luglio 2012

Cos'è l'educazione?

Quanto sono carenti le scuole di oggi, lo abbiamo già detto e non c'è bisogno di ripeterlo: lo abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, da quello che si legge sui giornali a tutto quello che sentiamo dire dai ragazzini per la strada..anche noi siamo giovani, e fuori da ogni ipocrisia diciamo che anche noi, da ragazzini, eravamo un po' (a volte anche molto) maleducati sia a parole, sia a fatti.
Ma ora che abbiamo qualche anno in più, ci siamo calmati parecchio, e abbiamo cominciato a ragionare un po' meglio e un po' di più rispetto a una decina di anni fa. E siccome abbiamo capito quanto sia importante l'educazione che riceviamo da piccoli per non cadere irrimediabilmente nelle mille deviazioni che ci si presentano durante l'adolescenza, siamo qui a parlare della nostra esperienza, e a dire la nostra che magari può essere opinione condivida o meno, l'importante è esprimersi.
Senza avere pretese di originalità, certo! Però ci sentiamo in dovere di provare a diffondere le nostre idee, che sono il risultato degli incontri-scontri avuti da ragazzini con i genitori (e che tuttora scoppiano, talvolta), ma anche delle nostre buone disposizioni che hanno avuto la meglio su quelle cattive, perché siamo riusciti a TRARRE FUORI quel che c'è di buono in noi. Naturalmente non stiamo parlando di pregi e di difetti caratteriali (quelli ci sono e rimangono...), ma dei nostri piccoli 'talenti', che abbiamo saputo riconoscere e valorizzare. 
Ed è proprio questo il senso etimologico dell'EDUCAZIONE: 'estrarre', 'condurre fuori', è un termine che deriva dal verbo latino educo, composto dalla preposizione e (che indica origine) e dal verbo primitivo duco, che significa, appunto, condurre. Educare significa estrarre quel che c'è di buono in noi e farne il nostro stile di vita e la nostra bandiera per il futuro. 
Ma questo estrarre quel buono che c'è in noi non può essere fatto interamente dagli educatori per eccellenza: i genitori. Spesso, anzi, i genitori si prodigano di consigli e di suggerimenti e di iniziative in cui coinvolgono i figli, naturalmente per il loro bene, ma molto spesso non si accorgono di indirizzare i figli verso quello che vorrebbero loro, non i figli stessi...causando traumi insanabili e fratture perenni. Questo non è assolutamente il nostro caso: per fortuna i nostri genitori ci hanno fatto sempre scegliere quello che volevamo, con la più totale libertà. E infatti non abbiamo sbagliato: siamo tutti e due contenti di quello che abbiamo ottenuto finora, perché tutto è avvenuto grazie alle nostre forze. Abbiamo sempre lavorato, ci siamo messi qualche eurino da parte e abbiamo studiato pagandoci gli studi, benzina e quant'altro, e ancora -a maggior ragione ora che siamo 'vecchietti' - lo facciamo. E siamo fieri. 
Fieri perché la nostra 'educazione' è anche questo: fare propria una serie di atteggiamenti e di abitudini che potranno solo farti del bene, e che quindi faranno emergere ciò che in te c'è di bene: ad esempio, individui in te l'amore per la lettura, trasformi questa sana e positiva passione in amore per lo studio, ottieni buoni voti a scuola e sei soddisfatto di te stesso, apprendi sempre cose nuove e soddisfi la tua sete di curiosità, ti crei una profondità interiore rafforzata dalla cultura che hai 'assimilato', parli con le persone e non ti manca mai la parola (se non per timidezza :-)), e così via (non parlo del trovare lavoro perché questo mondo è oggi a parte e non connesso con il merito)...
I genitori ci possono aiutare fino a un certo punto: ma poi siamo noi che dobbiamo assolutamente CAPIRE cosa siamo, cosa vogliamo davvero, e cercare di perseguire il nostro bene, nel rispetto del bene altrui.
L'educazione non è solo rispondere grazie e prego quando ci scambiamo le cose o dei favori, o dire buongiorno e buonasera, ma è un qualcosa di infinitamente più grande e più profondo: è tutto il buono che c'è in noi e che è riuscito a emergere. Il grazie e il buongiorno sono piuttosto buone maniere (e vediamo che ritorna il senso del 'buono' anche in questa definizione) che assolutamente fanno parte dell'educazione perchè appunto sono 'buone' maniere e che bisogna sempre insegnare ai piccoli: non bisogna dire che sono ipocrisie o gesti senza utilità. Sono invece segni di rispetto non solo formale, ma di sostanza: sono fondamentali anche queste piccole ma grandi attenzioni.
Educazione non è solo pedagogia, non è qualcosa che si insegna ai piccoli e basta, stop: no, l'educazione intesa nel senso ricco e profondo del verbo latino da cui deriva può essere appresa in qualsiasi secondo da qualsiasi persona, vecchia o giovane che sia. 
E' far fruttare il buono che abbiamo in noi. Soprattutto con l'aiuto di noi stessi.

lunedì 2 luglio 2012

Paris mon amour

Sono reduce da un breve viaggio per studio. Meta? Parigi! Diciamo che naturalmente, essendo in una città del genere, non poteva e non doveva essere esclusivamente un periodo di studio e lavoro, ma anche di svago e di divertimento, di curiosità e di visite ai luoghi cult di questa stupenda capitale europea. Ed è stato effettivamente così: certo, non potevamo fare forca al convegno, per cui armati di molta pazienza siamo andati e abbiamo svolto diligentemente il nostro dovere accademico, ma poi nei momenti liberi non siamo stati un attimo fermi, e siamo andati alla (ri)scoperta della favolosa Parigi!
Io c'ero già stata due volte: in primavera, in aprile, e in estate a giugno. Quest'anno di nuovo a giugno. Tanto per cominciare, il clima: non esiste cosa più variabile del tempo a Parigi. Quando andai di aprile, trovai un freddo tremendo che ti congelava, con quel vento tagliente che in Italia lo senti solo a gennaio. E io che, ignara e ignorante, ero andata con uno spolverino leggerissimo,  tornai con un febbrone che mi durò dei giorni .... La seconda volta, di giugno, trovai un caldo esagerato, davvero esagerato (questa eccezionalità mi fu confermata anche dai miei colleghi parigini): roba di 36-37 gradi il giorno e 27-28 la sera: incredibile! Reduce della prima esperienza polare, la mia valiga era piena di felpe e pantaloni lunghi, presa anche dalla sindrome di Totò che arriva in estate a Milano col colbacco e il pelliccione. Questa ultima esperienza è stata una via di mezzo dal punto di vista meteorologico: nello stesso giorno si sono avvicendati sole e pioggia, caldo afoso e fresco primaverile, nuvoloni e cielo limpido.. 
Come il clima è variabile e ballerino, così i Parigini sembrano variabili e ballerini : alcuni sono gentili anche se vedono che sei italiano, altri ti ridono in faccio con aria sprezzante, altri fanno finta di non capire quando chiedi informazioni in francese e ti rispondono puntualmente: je ne comprend pas! oppure te lo dicono in inglese, altri ti parlano addirittura in italiano per facilitarti la vita.
La città resta comunque per me una miniera inesauribile di meraviglie: anche quelle che avevo già visto sono sempre nuove ai miei occhi che tornano a guardarle. Per fare un esempio spicciolo, partirei dalla TOUR EIFFEL. Allora: quasi tutti i miei colleghi che non erano mai stati a Parigi ne sono rimasti delusi: chi se l'aspettava più grande (!), chi più scura (!!), chi posizionata meglio all'interno della città (!!!), chi ha detto che sembra un giocattolo (!!!!), chi la voleva smontare (!!!!!!!!!)...Solo io avevo gli occhi a forma di cuore quando la ammiravo nella sua ferrosa complicatezza e nelle sue luci così romantiche, quando la sera si riflettono sulle acque della Senna (sono proprio una 'gallinona romantica', per usare la simpaticissima espressione della mia amica M.). Per me la torre Eiffel è una delle cose più belle ed emozionanti che abbia mai visto, e ve lo dice una che prima di partire la prima volta per Parigi quasi la disprezzava, immaginandola ormai solo cibo per turisti. Non appena la vidi per la prima volta, invece, scoccò vero amore tra me e la torre del mitico Gustave, che la costruì in occasione dell'Esposizione Universale del 1889, centenario della Rivoluzione francese. Questo colosso di 324 metri doveva avere vita temporanea (era stato concepito come ingresso per quella grande manifestazione), e invece gli fu concessa l'eternità, tanto che ora è simbolo intoccabile di Parigi e della Francia intera.
E' vero, quando vai da lei (la chiamo in tono familiare), con quel suo aspetto slanciato ed elegante, è pieno di gente che cerca di venderti di tutto e di turisti vocianti che scattano foto e si incolonnano ai baldacchini per fare i biglietti, ma la magia di questo monumento, a mio parere, rimane intatta. Soprattutto la sera, quando dal Trocadero si può ammirare in tutto il suo scintillio davvero chic, molto molto parigino. Anche se i miei colleghi avrebbero fatto a meno di andarla a vedere, tuttavia mi hanno seguito (perché in pratica li ho quasi obbligati a farlo, perché non potevano andare via da Parigi senza averla salutata dal vivo!). Io sono rimasta un po' schoccata dalle loro reazioni quasi apatiche, senza entusiasmo...oh via, siete davanti alla torre Eiffel e non dite una parola?! Ma come si può?! Bah, l'importante è che IO l'abbia rivista ancora un volta: fidatevi di me, anche se sono una voce un po' fuori dal coro: vale la pena di vederla, soprattutto se siete in compagnia della vostra dolce metà, e se ci andate la sera vi assicuro che non ve ne pentirete, quando allo scoccare delle ore sbrilluccica ancora di più per cinque bellissimi minuti..!
Tutta Parigi è fantastica (non mi metto a parlare del Sacré-Coeur e della piazzetta di Montmartre, di Rue de Rivoli, degli Champs Elysées e di Parc Monceau): ma quello che c'è di più fantastico e sensuale in tutta Parigi è proprio la Tour
Non a caso, mi viene da dire, fa rima con Amour ;-))

 Godetevi questa bella vista della Tour...però non è mia la foto :-))

mercoledì 20 giugno 2012

Razza umana

Siamo in clima sportivo: si giocano gli Europei. Nonostante le molte moltissime polemiche sulla questione dei cani randagi barbaramente uccisi (anche quelli sterilizzati: che roba assurda), nessuno - e non è strano - se l'è sentita di boicottare questa manifestazione così importante. Tutti che blablabla (ovvero: boicottiamo, che schifo, che orrore, disumano) e poi non appena si avvicina il giorno della prima partita, tutti che dimenticano tutto: tutto ok, niente scandali, i cani e i gatti sono magicamente risorti, per non parlare di calciatori e allenatori venduti (manco prendessero due lire al mese..) che possono stare comodamente a casa a guardarsi le partite...
E va bene: il sistema gira tutto male, e anche i nostri calciatori non se la sono sentita, arrivati al dunque, di disdire questo importante impegno per una questione morale...e noi che facciamo? Presi inevitabilmente da quello stesso sistema, siamo tentati di guardare nonostante tutto la nazionale che gioca, quelle magliette azzurre che sembrano comunque suggerire un senso di patriottismo e di fratellanza collettiva che ci rilassa comunque, ci fa sentire parte di un tutto coeso. E il bello dello sport è proprio questo: la capacità di rendere l'uomo un 'animale sociale', cioè di farlo interagire con gli altri esseri umani su un piano 'umano', di coesione pacifica e costruttiva. Solo che questo, ahimè, è il bello delle Olimpiadi degli antichi Greci, che davvero coltivavano la prestanza fisica per tenere viva quella interiore, in un connubio splendido e, direi, vertiginosamente emozionante.
Noi invece come viviamo lo sport (naturalmente non dico di tutti, e sicuramente non è inclusa in questo discorso la mia tifosissima amica M., che saluto)? Con urli sbraitanti, spesso ubriachi, spesso uno accanto all'altro sulle tribune, ma senza guardarci un attimo in faccia, spesso scontrosi e amanti degli scontri. L'imbarbarimento dell'uomo (aveva ragione Rousseau, che più si va avanti, più si peggiora, mi sa), si vede anche negli stadi, dove la violenza sembra quasi la regola - e parlo non solo di violenza fisica, ma anche verbale.
Ma l'apice di questi degeneri atteggiamenti qual è? Rispondo senza esitare: i CORI RAZZISTI, che troppo spesso si innalzano dalle tribune gremite, e che inesorabilmente passano alla tv che trasmette quelle partite, arrivando a una larghissima fetta della popolazione. Impallidisco al solo pensiero di quanti giovani sono in quelle tribune, che ascoltano - e probabilmente partecipano a quelle dimostrazioni di inciviltà, e a quanti giovani sono costretti da casa a sentirli in tv. Io trovo tutto questo scioccante. Ma come è possibile che ancora oggi non si capisca che tutti e dico tutti abbiamo due occhi, due orecchie, due mani, due gambe, la stessa dose di 'buon senso' o 'ragione', come amava dire il grande Cartesio nel suo Discorso sul metodo, insomma, che siamo tutti un'unica razza di esseri viventi?
Apparteniamo tutti alla stessa razza, la razza umana: può raggiungere picchi di sublimità angelica (vedi Gandhi, vedi madre Teresa di Calcutta, per citare i più esemplificativi), come può sprofondare nella 'matta bestialità', per dirla con il grandissimo e insuperabile Dante (ed è il caso di chi è razzista).
Mi raccomando: usiamo bene la 'ragione' che la natura ci ha dato, non offendiamola e non deviamola con simili oltraggi.
Cartesio docet.

martedì 12 giugno 2012

Leggere è..raccogliere!

Molti si domanderanno il perché di questo strano titolo: leggere è raccogliere. Ecco subito svelato l'arcano, grazie alla nostra passione per l'etimologia che ci aiuta a scoprire il senso originario delle parole che usiamo ormai senza nemmeno accorgercene: leggere deriva diretto diretto dal lat. legere, che significa, appunto, 'raccogliere', e a sua volta questo lemma latino corrisponde al greco leghein, cioè 'parlare'.
Dunque, l'origine di questo nostro verbo, con cui ora si indica solitamente la lettura silenziosa, che va per la maggiore nella nostra società, sta tutta nell'oralità, come ci mostra benissimo il verbo greco leghein: nell'Antichità, infatti, la lettura silenziosa era una pratica del tutto minoritaria rispetto alla lettura ad alta voce. La lettura era quindi un'azione squisitamente orale (sebbene, come si è detto, non manchino attestazioni di lettura mentale, una  pratica tuttavia secondaria rispetto alla declamazione): l'occhio 'raccoglie' le parole scritte (come evidenzia il verbo latino più di quello greco) e le 'comunica alla voce, che le pronuncia come in un discorso (tra l'altro, non è un caso che la stessa radice di leghein si trovi anche nella grandissima parola greca logos, già incontrata più volte nel corso dei nostri post).
Solamente con l'avvento dell'età moderna la lettura silenziosa ha definitivamente surclassato quella a voce alta: cambierà così anche l'aspetto dei manoscritti (perché anche in epoca moderna, con l'avvento della stampa, si continueranno a vergare manoscritti su manoscritti...!) e delle edizioni stampate: le parole, che nel Medioevo venivano scritte tutte attaccate - la cosiddetta scriptio continua - ora vengono separate da spazi tipografici vuoti, e la punteggiatura si arricchisce e si definisce con ulteriori segni utili alla scansione della lettura mentale.
Oggi, al contrario di quanto facevano Greci e Romani, si legge ad alta voce in classe, a scuola o durante i convegni, ma per lo studio individuale preferiamo di gran lunga leggere silenziosamente. Si tratta della cosiddetta lettura endofasica (letteralmente 'parlare dentro'): insomma, volgiamola come ci pare, anche quando leggiamo in silenzio, in fondo, lo facciamo con una vocina interiore che corrisponde alla nostra vera e propria voce, una vocina puramente mentale, ma che scandisce le parole proprio come se noi le pronunciassimo articolando i suoni con lingua, gola, palato e labbra...insomma: con tutto il nostro bell'apparato fonatorio.
Se pensiamo a Virgilio, tanto per dire un grande, e alla sua Eneide, dobbiamo sempre tener conto che questo poema (ma il suo esempio vale per tutti i grandi auctores) non era stato concepito per essere 'letto', ma per essere 'parlato', ovvero, in un certo senso, recitato, proprio nel senso del verbo greco leghein che abbiamo visto.
E in fondo, la grande letteratura occidentale, e non solo, ha avuto inizio dall'oralità più pura, e poi progressivamente si è imposto, come mezzo più duraturo, l'uso della scrittura (verba volant, scripta manent, del resto!). Allora la lettura rappresenta il nesso inscindibile di parola scritta e parola parlata: un vero miracolo di cui può godere l'uomo..!
E' per questo che tutti, dico tutti, dovremmo leggere il più possibile, non importa se a voce alta o in silenzio: l'importante è leggere leggere leggere, per 'raccogliere' più parole, e quindi più pensieri possibili, e per crescere insieme a questi e grazie a questi. Dobbiamo essere delle formichine laboriose e instancabili, che prendono di qua e di là quel che c'è di buono in giro e se lo portano nella tana perché sanno che quel qualcosa di buono gli sarà utile, anzi, di vitale importanza: ecco, la lettura è per l'uomo una vitale ricerca di cibo, un qualcosa di cui non si può fare a meno, se siamo 'uomini' e non pietre o alberi (senza nulla togliere a loro). 
Leggiamo il più possibile: ogni libro è un campo sterminato di chicchi di grano per noi formichine affamate :-)))

domenica 10 giugno 2012

Città o campagna?

Nel nome di queste 'atmosfere' antitetiche (città e campagna) si apre questo post, che vuole un po' essere anche un omaggio all'umanista che sto studiando: il buon Maffeo Vegio, attivo nella prima parte del '400 e scrittore poligrafo (trattati, dialoghi e poesie, tutti rigorosamente in latino).
Questo bravo quanto sconosciuto 'omino' dell'Umanesimo era un fervido sostenitore dell'ambiente cittadino: egli amava sopra ogni altra cosa Pavia, dove si era formato, e Milano, dove invece tentava di entrare ad ogni costo nelle grazie dei potenti Visconti (...e questa ricerca di protezione non vi sembra una cosa molto molto contemporanea, anzi direi eternamente in atto? Al proposito ho scritto un post: Letteratura e potere, un connubio immortale..leggetelo se vi va!).
Ma il Vegio possedeva anche qualche appezzamento di terra nei dintorni di Lodi, in aperta campagna: in questi suoi possedimenti si era rifugiato sicuramente per ben due volte, nel 1423 e nel 1431, quando in città la peste infuriava. Durante queste due occasioni di forzato soggiorno agreste, il Vegio non perde occasione di scagliarsi contro i contadini, dipinti come veri e propri diavoli scatenati contro il 'padrone' Vegio. Egli, nei Pompeiana e nei Rusticanalia, li riprende continuamente, chiamandoli ladri e animali, e non risparmia lamenti anche nei confronti della campagna, che per lui si identifica con un luogo 'morto', non vitale, senza gli stimoli umani e culturali che invece rendono la città l'humus ideale per gli umanisti, sempre bisognosi di scambi, di confronti e di discussioni con altri umanisti. Il Vegio è invece costretto, in campagna, a confrontarsi con questi rozzi contadini, che assumo addirittura connotati animaleschi, sia per il loro lavoro che li porta a stare sempre curvi come le bestie, sia per i loro ferini e incontrollabili istinti sessuali.
Insomma, per il Vegio, la campagna è un luogo da abbandonare immediatamente per la sua capacità di abbrutire la specie umana; la città è invece sede della raffinatezza e del progresso, ambiente ideale per chi è veramente 'uomo'.
Questo suo atteggiamento nei confronti del mondo contadino e della campagna è del resto topico, tradizionale di un filone letterario che si radica nel Medioevo e che contrasta fortemente con la visione idealizzata del rus = campo che avevano gli antichi scrittori: basti pensare a Virgilio, a Tibullo e a Catone, ma anche alle sparse dichiarazioni ciceroniane in merito, che concepiva la campagna come luogo ideale per l'uomo forte fisicamente e moralmente.
In termini oggettivi, l'opposizione città e campagna potrebbe equivalere grosso modo alla distinzione artificio / natura: la città è il luogo dell'uomo, totalmente artificiale, creata dalla mente e dalla mano umana. La campagna dovrebbe essere dominio della natura, almeno in teoria. In teoria, perché anche la campagna risulta fortemente antropizzata: basta guardare le colline toscane, così perfette nella loro disposizione di vigneti, uliveti e frutteti, di campi e di stradine che li attraversano: in fondo, dunque, anche la campagna odierna è una specie di 'città', proprio per la mano infaticabile e invadente dell'uomo che la ha riplasmata secondo i suoi bisogni.
Quindi, a pensarci bene, non esiste poi tanta differenza tra questi due 'mondi'; quello che li distingue è in sostanza la più alta concentrazione di edifici che c'è in città rispetto alla campagna, che permette al cittadino (si ritorna sempre, inevitabilmente, alla dimensione umana) di avere a disposizione una serie di divertimenti e svaghi molto più varia e sicuramente diversa da quella che caratterizza la vita di campagna.
Sì, è proprio qui che voglio arrivare: non c'è differenza, almeno per l'Italia, tra campagna e città (entrambe  antropizzate fino agli estremi): quello che è diverso è la VITA di città rispetto alla VITA di campagna.
Io sono una pendolare che ha da sempre abitato in campagna, ma che quasi giornalmente per motivi di studio e lavoro frequenta una grande città: penso di poter azzardare un mio parere su questi due mondi..!
Personalmente amo pazzamente la campagna: adoro quando torno la sera e vedo le colline coperte di mille varietà di verde e il sole che le illumina di traverso, e il rumore del vento tra i cipressi che ho vicino casa, e le rondini che svolazzano infaticabili, e l'erba che come l'acqua riesce a infiltrarsi in ogni dove, e le lucciole la sera che attraversano danzando i campi di grano di fronte casa, e i mille versi di animali che ci sono qui (falchi, tutti i miei animaletti da cortile, i miei cani, i miei ricci - sì, anche i ricci fanno un verso che è stranissimo e che non so come si chiama, ma lo fanno :-))
Riesco a scaricare lo stress del giorno non appena, spenta la macchina, sento il silenzio: sentire il silenzio è stupendo, è molto più eloquente di qualsiasi altro discorso: è infatti un silenzio non silenzio, quello della campagna. C'è il ventolino che ti parla e che ti accarezza, calmandoti; c'è il cinguettio dei passerotti che è una vera e propria musica, c'è il gallo che non appena mi sente arrivare mi saluta con il suo strepitoso chicchirichiiii, ci sono i miei cani che festeggiano il mio ritorno a casa come mille salti addosso che non riesco a frenare, c'è il contadino laggiù che sul trattore torna a casa in mezzo alle vigne, stanco fisicamente, ma contento e soddisfatto e senza pensieri o ansie...
Scriverei un romanzo di 1000 pagine sulla bellezza del vivere in campagna, si sarà capito! Dopo una giornata in città, tra mille discorsi e mille attraversamenti di strade asfaltate, tra voci e voci che si rincorrono e che si perdono nell'aria afosa, tornare qui è stupendo ogni sera, mangiare fuori, sotto la tettoia di legno con l'odore dei gelsomini che ci avvolge, è magico, ogni sera, vedere il mio fidanzato ogni sera e passeggiare per le viuzze illuminate dalla luna è emozionante, ogni sera...ogni sera in campagna è sempre diversa, e sempre bellissima...
E chi dice che in campagna ci si annoia o che non c'è nulla da fare, beh, non so che tipo di campagna abbia frequentato...! Ogni volta che leggo il mio buon Vegio, mi domando come faceva a disprezzare così tanto la campagna da desiderare ardentemente il suo ritorno in città..! E' vero che nel '400 la situazione era diversa: in città non c'era fumo, c'erano cavalli e asini come mezzi di trasporto, e carri senza marmitte..
Non sto screditando la città di oggi: tutt'altro. Anche io in fondo sono una cittadina 'adottiva': ci vado ogni giorno in città, e non posso dire che qualche volta mi attragga tanto da pensare a come ci potrei vivere..però se devo scegliere..non abbandonerei mai la mia campagna-relax, per tutti i motivi che vi ho detto e per altri mille motivi che non ho avuto tempo di dire...!!
La mia, insomma, è un'apologia della vita di campagna: in questo mi scontro col mio Vegio. Ma la mia apologia non ha spazio per la critica verso la città: non posso non amare un centro di cultura come Firenze, e in generale le città come segno della mano dell'uomo. La mia è solo una preferenza, anzi, una scelta in sintonia con la mia 'natura'.
Mi trovo bene nel verde e nel blu dei miei campi!

lunedì 4 giugno 2012

La mia 'filologia' di vita

A scrivere ora è Nicolle, la parte 'artistica' del duo Nicolle-Alessandro. E oggi voglio scrivere di una mia grande passione: la filologia. Una scienza? O un'arte? Beh, diciamo che questa disciplina è a metà tra questi due mondi: anzi, li ingloba e li comprende entrambi, perché, con la sua evoluzione, ha assunto sempre più le forme e la prassi di un procedimento scientifico, ma, riguardando la cultura 'scritta' dell'uomo, ha nel suo fondo un'inestinguibile fonte di artisticità, che mi fa adorare questa forma di conoscenza.
Si tratta di un 'amore', come indicano tutte le parole composte dal greco philos: in questo caso è amore per la 'parola', per il 'discorso', ma anche per il 'pensiero' (dato che il greco logos vuol dire tutto questo). Dunque la filologia non è un semplice  - né tantomento inutile - indugiare sulle parole, ma anche sul 'sema', sul significato e sull'interpretazione che ogni singola parola di un discorso e che la catena stessa creata da queste singole parole nascondono. 
La filologia è allora anche un modo profondo di leggere la realtà tramite la parola scritta: un riappropriarsi del pensiero originario di un certo autore tramite la ricostituzione della sua 'parola' originaria'.
Di fatto, è proprio questo il compito del filologo che ci insegnano all'Università: fornire un'edizione critica di un testo, ovvero cercare di ricostruire la veste testuale più vicina alla volontà dell'autore. Ma la filologia non è solo questo: è, come dicevo prima, anche una 'ermeneutica', una interpretazione dei testi che tenta di ricostruire nella loro veste originale. Perché non è data buona filologia se di pari passo non si 'comprende' un testo, legandolo anche al suo contesto e alla conoscenza delle abitudini (non solo culturali e linguistiche) del proprio autore.
Dunque le moderne edizioni critiche, estremamente difficili - è vero - da leggere per chi non è del mestiere, sono corredate di un'ampia introduzione filologica, in cui si espone la storia della tradizione del testo (manoscritta o a stampa) e si evidenziano le parentele sulla base di una complicata analisi del sistema degli errori (di copisti o di stampa, quindi non dovuti all'autore) e di varianti (spesso autoriali) che sarebbe troppo lungo e noioso stare a spiegare qui. Inoltre, una buona edizione critica si basa su tutti i testimoni di quella data opera, nessuno escluso: questo per conferire un valore davvero scientifico al testo che si sceglierà di pubblicare. Per questo, a piè di pagina del testo si trova un ricco apparato critico, in cui si elencano di volta in volta le 'lezioni' rifiutate a testo e le varianti d'autore trovate per ogni singolo passo: questo perché nella filologia è intrinseca una ONESTA' di fondo. Si vuole cioè che il lettore abbia davanti a sé tutto il materiale per valutare le scelte editoriali del filologo, e anche perché è giusto che il lettore conosca i passaggi redazionali (qualora ve ne siano) dell'opera di suo interesse.
Questo è il frutto del lavoro - spesso lunghissimo e quasi interminabile - di un filologo: l'edizione critica. 
Ma dietro la filologia, una pratica che comincia con gli Alessandrini e che sarà completamente rinnovata dai grandissimi Umanisti (soprattutto il Valla e Poliziano) c'è un amore per la verità che va ben oltre il mero testo scritto: è un amore per la parola in quanto privilegiato mezzo di comunicazione squisitamente umano: tramite la parola, l'uomo comunica i suoi pensieri. Quindi, se la parola è esatta, anche il pensiero che essa vuol comunicare è - almeno formalmente - esatto e ineccepibile. Non c'è possibilità di errore. Proprio per non sbagliarsi, c'è bisogno di ricostruire la 'parola' originaria.
Oggi più che mai c'è bisogno di essere tutti un po' 'filologi', di riappropriarsi cioè della 'verità' del linguaggio umano: infatti, il linguaggio medio si sta fin troppo standardizzando, si stanno perdendo le sfumature lessicali e le peculiarità dialettali che tanto più sapore hanno degli inglesismi che entrano a vagonate piene nel nostro italiano impoverito. I discorsi degli Italiani di oggi (a ogni livello: scolastico, politico, economico) traboccano di una terminologia imprecisa e sbagliata.
Come si fa a seguire tali discorsi fatti di parole errate? Come comprenderne il pensiero sotteso? Perché non riusciamo più a parlare né a pensare bene? Perché filologia e pensiero vanno di pari passo: se decade l'una decade anche l'altra, e viceversa, naturalmente. Il disinteresse dei giovani di Lettere e Filosofia verso la filologia è una prova di questa decadenza generale, come lo è la nascita della 'massa', con le sue innumerevoli omologazioni (dialetti che vanno scomparendo, rifiutati dalle stesse persone che ne dovrebbero essere le orgogliose depositarei, informazione pilotata dall'alto e da un unico canale di potere, televisione - spazzatura imperante, analfabetismo galoppante dovuto a un sistema scolastico più che deficitario e che definire qualitativamente mediocre è un eufemismo).
E quando andavo ai corsi universitari di filologia romanza o di filologia umanistica, e sentivo tutti quei ragazzi che si chiedevano quale fosse l'utilità di questa disciplina, mi rendevo conto di quanto fosse - e continua a essere, mi dicono - mal spiegata: spesso i prof. universitari, pur essendo bravissimi filologi, quando devono insegnare filologia la riducono a mere formulette manualistiche che non entrano nei 'cuori' degli studenti. Perché invece non aprono le loro lezioni di filologia con il dire che questa disciplina è una 'forma mentis', è un bisogno di verità, è un'aspirazione alla libertà? Con tutto il bisogno odierno di questi valori, vedrebbero quanti ragazzi in più si innamorerebbero di Philologia!!

mercoledì 30 maggio 2012

Libertas... Libertà!

Liberté, liberté, liberté, liberté...!!! Il principio-simbolo della Rivoluzione francese (assieme agli altrettanto famosi  egalité e fraternité) da sempre accompagna la riflessione umana, non solo ai più alti livelli filosofico-religiosi, ma anche nella quotidianità della vita. Già per gli antichi Greci e Romani, dalla cui cultura parte tutta la nostra, di cultura (!), onorarono questo alto concetto con la creazione di vocaboli fonicamente e semanticamente importanti e grandiosi: eleutheria in greco e libertas in latino. Ma per quelle grandi civiltà, la libertà riguardava quasi esclusivamente la condizione di un ristretto gruppo di uomini (maschi), cioè i cittadini liberi, e perciò era intesa soprattutto da un punto di vista politico: l'uomo libero (il non-schiavo e il non-donna: questo naturalmente è uno dei limiti di quelle grandi civiltà) possedeva l'esclusività del diritto di esprimersi liberamente durante le assemblee politiche e durante le riunioni pubbliche. Il peso della libertà antica, dunque, era eminentemente 'sociale', ma anche al limite del 'settario', perché si realizzava solo per una piccola parte della popolazione. Infatti, negli antichi auctores (i grandi scrittori dell'Antichità), queste due parole sono soprattutto utilizzate all'interno di orazioni e trattazioni politiche. 
Con l'affermarsi della religione cristiana, sorse anche il concetto di 'libero arbitrio', un concetto che, nella forma del suo rovesciamento, il determinismo, in verità già era al centro dello Stoicismo. Sostanzialmente, la cultura cristiana identifica la libertà con il libero arbitrio; in realtà le due idee non sono la stessa cosa. Il libero arbitrio riguarda infatti la possibilità che ha l'uomo di scegliere quale azione compiere: riguarda insomma la libertà 'pratica' e solo questa, ed è per questo che è sorta con il Cristianesimo, che aveva la necessità di spiegare come mai un Dio onnipotente e onnisciente dia all'uomo la possibilità di scegliere tra bene e male (l'uomo deve scegliere perché così potrà essere giudicato da Dio in base alle sue consapevoli azioni).
Con la Rivoluzione francese, quell'enorme e totale rovesciamento del 'mondo' umano che è alla base degli aspetti - belli e brutti - della contemporaneità, si afferma un nuovo concetto di 'libertà', totalmente laico e (almeno in teoria) universale. La libertà si identifica con un coacervo di rivendicazioni di diritti e doveri, come la libertà di stampa, la libertà di parola, la libertà di pensiero, e più tardi la libertà di sciopero e di manifestare in modo pacifico il proprio dissenso politico eccetera eccetera.. Se insomma sembra che la nostra libertà sia in sostanza molto più ampia di quella dei Greci e Romani e di quella degli antichi Cristiani, siamo davvero sicuri che lo sia? Sicuramente la rivendicazione dei diritti civili e della loro universalità ha fatto progressi; la donna non è più segregata in casa, il lavoro è un diritto-dovere per tutti e non esiste più lo schiavo (parliamo naturalmente solo delle civiltà europee); i bambini sono tutelati nella loro crescita e gli animali godono di grande protezione legale. Ribadiamo che ancora una volta, per tutto quanto c'è di buono oggi, ringraziamo la Rivolution française!!
Ma quanti 'ma' esistono anche per le cose suddette? Quante eccezioni? Quante infrazioni? Troppe: troppe per dire che davvero la libertà della Rivoluzione si sia effettivamente realizzata in tutto; non c'è bisogno di menzionare la politica: in questo campo non abbiamo imparato proprio nulla dal passato, anzi, siamo imbestialiti e inselvatichiti. Botte in Parlamento, proclami urlati, propagande truccate, giri illeciti di soldi e donnacce, tg, giornali e tv pilotati e trash, e chi più ne ha più ne metta. Ma noi siamo davvero gli eredi delle antichi ed evolutissimi Greci e Latini? Dovremmo concludere di no, almeno sul piano della libertas. Piuttosto mi sembra che abbiamo molto imparato dai periodacci della storia, come quello orribile del Fascismo, quando alla radio, in tv e sui giornali mandavano servizi iper truccati, dove tutto era bello, buono e superficiale: si mirava al rintontimento generale (che fu raggiunto clamorosamente, e con le disastrose conseguenze che sappiamo). L'odierna 'informazione', vi pare che sia tanto diversa? Ma ci rendiamo conto di cosa mandano in tv? Claustrofobici spazi culturali o di discussione politico-sociale sono trasmessi durante le ore morte della notte, mentre il giorno ci bombardano, grandi e piccini, con vera spazzatura. 
Questa spazzatura verbale è infinitamente più inquinante di quella che è gettata per le strade di Napoli. Perché? Perché se permettiamo al potere politico marcio di chiuderci i cervelli e di renderci sordi e ciechi come potremmo educarci al rispetto e alla moralità costruttiva? Come potremo capire che se buttiamo spazzatura in strada quella schifezza finirà negli stomaci dei nostri figli? 
Noi siamo di questo semplice parere: se vogliamo conquistare la vera e completa libertà, che unisce tutto quello che di buono è venuto fuori dallo sviluppo storico di questo concetto (filosofico, religioso, laico), riappropriamoci della libertà di pensare. A cose serie. 

Ritorniamo in noi stessi. 
Riflettiamoci.
Ascoltiamoci.
...è importante!!

mercoledì 23 maggio 2012

Caccia ai cacciatori!

Oggi parleremo di un problema scottante, sulla scia della questione del rapporto uomo-animali inaugurato con i due post precedenti a questo: la caccia e il bracconaggio.
Prima di tutto un po' di etimologia di questi due termini, sempre utile a comprendere meglio i fenomeni che identificano: la radice della parola 'caccia' è la stessa del verbo latino capio, e, naturalmente, del suo frequentativo capto. Da qui deriverebbe una forma del latino volgare non attestata, *caciare (risalente alla forma captiare, dal latino capto, appunto), da cui a loro volta trarrebbero origine il moderno termine italiano caccia e il corrispondente francese chasse, per esempio. Capio significa 'prendere', ma anche, in senso militare, 'impadronirsi di': ecco dunque spiegato il significato della caccia. Si tratta di un appropriarsi di qualcosa su cui esercitare la propria volontà. Nel termine si nasconde dunque una sorta di egoismo e di prepotenza, che ben rappresenta la moderna attività che va sotto il nome di 'caccia'.
Se però nella preistoria l'uomo, per l'appunto primitivo, doveva cacciare per procurarsi cibo, animale tra animali, con l'evoluzione è sorta - grazie al cielo - l'agricoltura, che ha permesso all'uomo di sviluppare colture in grado di nutrirlo in modo più vario rispetto alla povertà alimentare dovuta alla semplice attività di raccolta di bacche, radici e funghi e, appunto, alla caccia. Lo sviluppo ulteriore ha fatto sì che l'uomo della storia raggiungesse livelli di civiltà così elevati da far giungere Pitagora e poi Ovidio, come già detto nel post precedente, al rifiuto consapevole e filosoficamente motivato della carne animale. Tuttavia la caccia non è mai sparita del tutto dalla vita dell'uomo: il raffinatissimo Federico II di Svevia scrisse un famoso trattato di falconeria, il De arte venandi cum avibus (Sull'arte di cacciare con i volatili) una modalità di caccia tipica delle abitudini hobbistiche dell'aristocrazia medievale, che marcava la propria superiorità proprio dedicandosi a questa attività esclusiva della loro classe. Quindi, nel Medioevo la caccia era uno strumento di affermazione sociale: il nobile realizzava e ostentava il suo status di 'nobile', appunto, proprio praticando la caccia servendosi dei rapaci.
Ma oggi? Perché esiste ancora la caccia nella società occidentale? Per una volontà di distinguersi socialmente? Perché ci manca il cibo? No. Abbiamo tutto: i supermercati traboccano di carne di tutti i tipi, e lo status symbol è ormai rappresentato dalle automobili, dai viaggi che si riescono a organizzare o dalla quantità di donne che uno riesce a portarsi a letto nel minor tempo possibile. Dunque, perché si continua a cacciare??
Beh, sinceramente facciamo fatica a spiegare il perché della persistenza di questa ormai barbara attività: possiamo però avanzare una ipotesi che ha però tutta l'aria di essere la dura realtà. E' il paradosso della noia che sta sotto tutto questo sistema: la volontà di divertirsi a ogni costo, anche con espedienti moralmente discutibili, porta molta gente a dedicarsi ad attività terribili, che portano morte e distruzione. Noi ci domandiamo questo: come è possibile che un uomo si diverta a uccidere degli animali innocenti, a vederli morire, sghignazzando soddisfatto come se avesse vinto e abbattuto un nemico crudele e totalmente negativo?? Se vi divertite tanto, cari cacciatori, a tenere un fucile in mano e a prendere la mira (perché NON VOGLIAMO credere che vi divertiate provocando morte e portando povere prede a casa, neanche foste degli eroi) ci sono i poligoni: sfogate la vostra assurda voglia di sparare in uno di questi posti attrezzati, dove non c'è danno se non per le sagome di cartone.
E poi il bracconaggio (dal francese braconner = cacciare di frodo, illegalmente) è, come indica la parola italiana, un prestito (non solo linguistico) dal francese, una pratica importata dall'estero, che a nostro avviso meriterebbe una condanna senza appello da parte di tutta la società civile (almeno di quella veramente civile):  molto spesso, infatti, si tratta di persone che non hanno nemmeno il porto d'armi, e che quindi uccidono in modo del tutto illegale e criminale. Come i cacciatori uccidono, ma con l'aggravante che spesso sparano senza saperlo fare.
Tutti dovremmo prendere coscienza dell'assurdità maligna della caccia. Tutti dovremmo combattere contro questa vergognosa mentalità del 'fucile'. Tutti dovremmo educare i bambini fin da piccoli al rifiuto di simili ingiustizie. Insegnamo ai nostri figli che il divertimento dell'uomo (bah?) non vale MAI la vita di creature innocenti e indifese. Gli animali, tutti gli animali, anche quelli più feroci, di fronte al fucile e alla polvere da sparo sono paragonabili a un neonato: i peggiori artigli sono quelli artificiali dell'uomo che non ha rispetto per la vita altrui, che sia uomo o animale.
Sicuramente ha un grande fondo di verità il detto diffusissimo che dice: 'chi non ama gli animali non ama neanche gli uomini'. Quindi impariamo prima ad amare - e a far amare - gli animali, la vita in ogni sua forma, e avremo almeno un mondo sicuramente migliore di quello d'oggi!

domenica 13 maggio 2012

Vegetariani e non: basta ipocrisie e derisioni!

In linea con il post immediatamente precedente, mi sento in dovere di affrontare una tematica che fin da Pitagora, per poi passare a Ovidio e infine alla nostra mentalità, ha da sempre interessato il pensiero umano: il vegetarianesimo, un tema che spesso emerge nell'ambito dell'INFORMAZIONE, che fa parte da sempre della nostra CULTURA (vedi per esempio Pitagora e Ovidio), ma di cui spesso è carente la FORMAZIONE della maggior parte delle persone (le loro riflessioni personali in merito sono cioè superficiali e poche, se non nulle).
La mia carissima amica V., una delle cose davvero positive che mi ha regalato l'esperienza liceale, è vegetariana fin dalla nascita, ovviamente prima per scelta dei suoi genitori, poi per una sua scelta consapevole e ponderata. E' una persona molto molto aperta, sia caratterialmente che 'mentalmente'. Mi piace accennare a lei qui perché, oltre che essere vegetariana, è una persona che possiede tutte e tre le qualità che titolano il nostro blog: cultura, formazione e informazione (in base ai suoi studi, riesce sempre a dare un giudizio ragionato su quello che accade attualmente). Dunque è perfetta per prendere le mosse su questo argomento e in questo contesto...!
Quando parlo con altre persone di vegetarianesimo, spesso sento deridere chi ha fatto questa scelta: "non sanno che si perdono!", " ma come si fa a non averla neanche mai assaggiata?!" sono le esclamazioni-interrogazioni tra il divertente e l'assurdo che mi ronzano intorno. Ma queste persone non sanno che dietro una scelta così forte e profonda non può che esserci una o più motivazioni altrettanto forti e profonde?
Altri dicono che la scelta dei vegetariani è inutile perché tanto gli animali vengono macellati ugualmente - è questa è una constatazione viziosa: non si tratta di un tentativo di diminuire gli animali uccisi per uso alimentare (o meglio, non è solo questa la motivazione). Si tratta invece di una vera e propria obiezione di coscienza: mi oppongo con tutta la mia persona alla strage e non vi partecipo in alcun modo. 
Qualcuno più serio ribadisce che da sempre l'uomo ha mangiato carne, e che quindi i vegetariani di oggi sono solo degli ipocriti. Certo, l'uomo primitivo cacciava per sopravvivere. Ma oggi, con tutto il benessere materiale di cui godiamo nei paesi economicamente più forti (o diciamo, pienamente inseriti in un'ottica consumistica, in cui l'abbondanza che troppo spesso sfocia nello spreco sembra essere uno dei risultati concreti di questo pseudosviluppo), molte persone sentono la necessità di rifiutare di cibarsi di carne animale: questo soprattutto per i modi barbari e mostruosi con cui essi vengono allevati e poi uccisi, solo allo scopo di nutrire l'ingordo e insaziabile 'uomo'.
Ma, come ho accennato in precedenza, anche Pitagora e poi Ovidio hanno sostenuto questa scelta, motivata su basi filosofiche. Rileggiamo il celebre passo ovidiano (Ov. Met. XV, 453-478):
Ne tamen oblitis ad metam tendere longe  / exspatiemur equis, caelum et quodcumque sub illo est / inmutat formas tellusque et quidquid in illa est; / nos quoque, pars mundi, quoniam non corpora solum, / verum etiam volucres animae sumus inque ferinas / possumus ire domos pecudumque in pectora condi, / corpora, quae possunt animas habuisse parentum / aut fratrum aut aliquo iunctorum foedere nobis / aut hominum certe, tuta esse et honesta sinamus / neve Thyesteis cumulemus viscera mensis. / Quam male consuescit, quam se parat ille cruori / inpius humano, vituli qui guttura ferro / rumpit et inmotas praebet mugitibus aures, / aut qui vagitus similes puerilibus haedum / edentem iugulare potest aut alite vesci, / cui dedit ipse cibos! Quantum est, quod desit in istis / ad plenum facinus? Quo transitus inde paratur? / Bos aret aut mortem senioribus inputet annis, / horriferum contra Borean ovis arma ministret, / ubera dent saturae manibus pressanda capellae. / Retia cum pedicis laqueosque artesque dolosas / tollite, nec volucrem viscata fallite virga / nec formidatis cervos inludite pennis / nec celate cibis uncos fallacibus hamos. / Perdite, siqua nocent, verum haec quoque perdite tantum: / ora vacent epulis alimentaque mitia carpant.
 TRADUZIONE di N. Scivoletto: Ora, per non scorrazzare a lungo con i cavalli dimentichi di andare verso la meta, riprendiamo il nostro argomento: il cielo e tutto ciò che gli sta sotto mutano forma e la mutano la terra e tutto ciò che è contenuto in essa; anche noi, che facciamo parte del mondo, in quanto non siamo solo corpi, ma anche anime volanti, e possiamo introdurci nei corpi di bestie selvagge e nasconderci in quelli di animali domestici: per questo curiamoci che rimangano sicuri e rispettati quei corpi che possano aver accolto le anime dei genitori o dei fratelli o di altri legati a noi da qualche vincolo di parentela o, in ogni caso, di esseri umani, e non riempiamoci lo stomaco con pietanze degne di Tieste. A quale empietà si assuefa, come si prepara a versare sangue umano quel malvagio che recide con il ferro la gola di un vitellino e ne ascolta senza compassione i muggiti, o colui che ha l'animo di sgozzare un capretto che vagisce come un bambino oppure di nutrirsi di quei volatili ai quali egli stesso ha dato da mangiare! Quanta differenza c'è tra queste uccisioni e l'omicidio vero e proprio? Da lì, per quali crimini non si apre la via? Il bue continui ad arare e attribuisca la sua morte alla vecchiaia, la pecora fornisca il riparo contro Borea che ci intirizzisce, le caprette ben pasciute offrano alle mani le loro mammelle per farsele mungere. Togliete di mezzo le reti, i lacciuoli, i cappi e ogni altra insidia e non ingannate gli uccelli con pali spalmati di vischio, non preparate insidie ai corvi con spauracchi di piume, non nascondete gli ami adunchi in mezzo alle esche ingannatrici. Se ci sono animali che danneggiano, eliminateli, ma eliminate solo questi; la vostra bocca si astenga dal mangiarne e carni e assuma solo alimenti incruenti.
Questo è il pensiero pitagorico riformulato da Ovidio (che non a caso fa pronunciare questo discorso proprio al personaggio Pitagora): è chiara la forte base filosofica su cui si informa tale concezione del vegetarianesimo, e la concessione finale di uccidere soltanto gli animali feroci verso gli uomini.
Oggi forse la questione è slittata su un piano diverso, ma non cambiano in sostanza gli assunti: anche gli animali hanno una propria 'anima', e soprattutto una propria dignità, che non è giusto  calpestare: l'uomo non ha il diritto di togliere la vita ad altri esseri che 'vivono' come lui, e per di più di toglierla con metodologie barbare, al limite della sadica tortura.
Basta dunque alla derisione di chi è vegetariano: questa scelta dimostra intelligenza e una forte e concreta presa di posizione.
Tuttavia, mi fa veramente ridere il fatto che oggi il vegetarianesimo sia diventato una moda: molti lo diventano (o si vantano di esserlo pur non essendo in realtà) perché fa 'alternativo' o 'ecologico' o 'intellettuale': beh, secondo me questi individui pseudovegetariani si riconoscono da lontano perché non perdono un minuto ad affermare o ribadire a voce alta la loro scelta alimentare. A questi sì che dobbiamo ridere in faccia: non si scherza su una scelta dalle radici così lontane ed elevate (il pitagorismo in primis) e dalle motivazioni etiche così nobili e intelligenti!
Allora stop al vegetarianesimo come moda superficiale e narcisistica: è un'offesa ulteriore agli animali e alla loro semplice e nobile dignità, oltre che un insulto a chi nel vegetarianesimo crede davvero e a tutto quello che tale idea comporta.